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Amico, amico fragile …se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te…

Tutela AmbientebiowoodheaterSCUOLA GUARINO

 

La non-vita (mal di vivere) può essere vissuta in vita? Chiaro che si. Succede ogniqualvolta anteponiamo gli altri a noi… questo avviene quando l’identità non si è con-solidata, perché sciolta… ed è per questo che si preferisce vivere dandosi, offrendosi anche al volontariato. Darsi completamente agli altri, può sembrare a prima vista uno slancio esemplare di altruismo ma non sempre è così. Anzi, diciamoci la verità, quasi mai è così. Questo avviene perché sentiamo un gran bisogno di essere riconosciuti per ciò che diamo nella convinzione di capire chi siamo… è ovvio che la nostra identità passa dal riconoscimento che riusciamo ad avere da ci sta o dovrebbe starci vicino. È unavventura/viaggio che inizia con la vita; col riconoscimento identitario che ci viene dai nostri genitori ed in primis dalla madre e dal padre… se per motivi diversi e contingenti la fame identitaria non viene soddisfatta siamo in presenza di un vuoto/voragine che troverà enormi difficoltà a sanarsi, pertanto, cercheremo in ogni contatto quel riconoscimento che ci manca e ci toglie il fiato lasciandoci dentro un alone in cui ci sentiamo sospesi nella non-vita, nella tensione continua di coprire con sempre nuove pezze ciò che non si riesce a ricomporre con le proprie forze mentali che si affidano ad una forsennata ricerca identitaria che a volte ci può arrivare anche dalla martirizzazione… lo scopo è essere visti in quelle parti che nessuno ancora ha visitato e che richiedono clamore per essere valorizzate… a volte l’ultima ratio può essere tragica e coincidere col suicidio, con un inutile eroismo o col prestarsi a fare il kamikaze per un dio che riserba quelle attenzioni che la non-vita in vita non offre.

COOPERATIVA SANTANNA

L’identità è quella compagna di vita che prende per mano la nostra psiche mostrandole ciò che siamo e vogliamo continuare ad essere o divenire… e sono davvero tanti i filosofi che hanno contribuito a definirla da Cartesio, quando ha evidenziato la funzione del cogito, a Kant e Husserl quando hanno voluto definire l’io trascendentale… come gli stessi illuministi quando si sono soffermati sul ruolo della ragione.

 

L’identità è stata vista cioè come la parte essenziale e sostanziale del nostro essere nel mondo… e compito di ogni persona sin dalla sua prima infanzia è di affermare questa essenzialità che la distingue da qualsiasi altro suo simile. Altri filosofi postularono, invece, la non-sostanzialità del sé (Hume) o furono propensi a pensare il sé e l’identità come un progetto dell’individuo autentico ( Nietzsche, Heidegger, Sartre)… ma ciò che a noi preme è contribuire a dare nuove opportunità a chi ha visto e vede frantumare la propria identità e desidera ricompattarla. La costruzione di un’identità destrutturata, frantumata, ha bisogno di rivedere ciò che ha impedito che si strutturasse… ed è possibile in tal senso accompagnare questo processo di ri-strutturazione attraverso il confronto con il contesto di provenienza e le diverse ‘anime’ socio-culturali e psicosociali che fanno da sfondo all’ambiente che ha con/causato quel particolare ‘disagio’ al fine di raccogliere i cocci in modo da portare chi vive il disagio a lavorare su di sé, sui rapporti coi familiari, con l’esterno e coi progetti di cui vuole arricchire il proprio esserci nel mondo.

 

L’identità per antonomasia non è fragile altrimenti sarebbe incompiuta, non è molteplice altrimenti sarebbe causa di disturbo della personalità… quindi è, per definizione, forte. Cosa significa identità se non uguale a se stesso ed è un’identità che si presenta solida, compatta, non si spezza. Contro ogni logica di fragilità che è soggetta a rompersi, frantumarsi. L’identità esclude, pertanto, la fragilità poiché è il suo opposto… è un ossimoro. Se una persona ha una identità fragile significa che non ha un suo territorio e quindi è soggetta ad essere invasa da chiunque abbia un’identità. I cosiddetti ‘fragili’ o ‘sensibili’ sono quelli che si lasciano condizionare da tutti e da tutto, sono come canne al vento che vanno sostenuti, seguiti… e spesso non riescono a portare a termine consegne che richiedono una certa responsabilità.

Sarebbe bello fare un brainstorming con gli esperti delle diverse discipline che si occupano delle problematiche dei cosiddetti ‘fragili’ per capire come ognuno di loro si muove per tradurre la fragilità in solidità. Lo psicologo e lo psicanalista… risponderebbero con psicoterapie individualizzate o di gruppo condotte in una logica asimmetrica in cui da una parte c’è l’esperto e dall’altra il sintomatico accompagnato dai familiari o da un gruppo eterogeneo. In questo caso si darà e si farà molta attenzione alle parole, alla storia personale e familiare del sintomatico e non si considererà il corpo come codice/ponte per incidere sui vissuti che (non-visti) vanno visitati (visti) senza l’esclusivo ausilio di tecniche ma attraverso dinamiche che possano sconfinare nel transfer in cui le diverse parti in gioco sono assolutamente simmetriche e non confinate in ruoli/funzioni standard. Lo psichiatra invece andrebbe a consultare la sua ‘bibbia’ rappresentata dal DSV (nelle sue diverse edizioni ed integrazioni) per dispensare benzodiazepine e psicofarmaci a vita… non si porrebbe nemmeno il problema della ‘guarigione’ ma il suo primo discorso sarebbe incentrato a far capire al ‘malcapitato’ e ai suoi familiari la differenza tra ‘cura e guarigione’… lui si occupa di ‘cura’ se poi ci scappa la ‘guarigione’ tanto di guadagnato.

I soggetti sottoposti ad intervento psichiatrico sono spesso dichiarati ‘cronici’, poco importa se il disagio si sia evidenziato in età adolescenziale e che prima era o sembrava tutto sotto controllo. Ed importa poco per loro se strumentalmente non viene diagnosticato niente eccetto che non si tratti di traumi conclamati, dovuti perlopiù a situazioni contingenti. Il loro punto di vista clinico, si basa su test o diagnosi intuitive, superficiali, dettati da parametri che spesso sfuggono alla catalogazione. In tutti questi casi – come dicevo prima – se noi attivassimo un brainstorming ci troveremmo di fronte ad interventi spesso inconcludenti se non addirittura peggiorativi e questa è storia di tutti i giorni, basta farsi un giro nelle comunità psichiatriche o negli stessi ospedali.

I nostri ‘professionisti’ potrebbero di sicuro dare un contributo enorme ai cosiddetti ‘fragili’, a coloro che ci stanno facendo notare come fanno fatica ad andare avanti dopo avere perso – per strada – alcuni ‘frammenti’ identitari che non sono stati raccolti da nessuno e che è bastata una delusione, un impatto con gli stupefacenti, con l’alcol per scoprirsi indifesi. Il contributo della psichiatria – depsichiatrizzata – potrebbe essere determinante se la mettessimo a disposizione del contrasto al disagio ontologico anziché perseverare nell’errore di considerare cronici i cosiddetti psicopatici e non la psichiatria che è ferma rispetto alle incessanti domande che l’associazionismo ed il volontariato pongono…

Angelo Vita

(Psicopedagogista – docente di Filosofia e Storia)