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PASSEROTTO NON ANDARE VIA… ok, ma cosa ne pensa il nostro specchio riconoscente?

biowoodheaterpegaso

 

 

COOPERATIVA SANTANNA

Chi non è stato in qualche modo, nel corso della vita, ABBANDONATO? Chi se la sente di scagliare una pietra contro e dire NO? Affondare la nostra attenzione su questa esperienza non esaltante e che ci s-co(i)nvolge a volte può ritornarci utile. Questo perché l’ABBANDONO è come GIANO BIFRONTE:  ha un AVANTI, che dipende dalla nostra volontà e lo usiamo per scudarci lasciando il campo che ci appare ‘minato’, e un DIETRO che ci rende vittime di ABBANDONO. Possiamo, dunque, colpire o essere colpiti. L’arma è a doppio taglio, ma il senso non cambia sia che siamo attivi che passivi. Abbiamo a che fare cioè con una modalità di stare al mondo che se non la si governa la si subisce col rischio di pagarne le conseguenze nei diversi livelli dell’autostima e dell’auto/riconoscimento identitario.

Ma andiamo con ordine poiché sono diversi i derivati (etimologici) dell’ABBANDONO che spesso ‘sfilano’ tra i comportamenti acquisiti… quello che più si avvicina all’idea che sto cercando di evidenziare si riferisce ad AB (particella che indica una sorta di separazione) e BANDUM (Bandiera) che in quel tempo remoto significava lasciare la bandiera, disertare o comunque mettere una certa distanza tra sé o la persona da cui si è ‘fuggiti’.

Secondo l’esperienza sinora maturata nel seguire (da 5 anni) le dinamiche che sottostanno al ‘disagio diffuso’ – riguardante non solo i SINTOMATICI ma anche gli  A/SINTOMATICI, l’ABBANDONO potrebbe essere letto come una DIFESA/RESISTENZA che ha lo scopo di tutelarci da un possibile ed imprevedibile scontro che potrebbe compromettere la relazione con la ‘parte’ da cui ci si ritrae per salvaguardare la propria ‘interità’… questo perché è risaputo che nel corso della vita, ognuno di noi procede attraverso un doppio meccanismo che tende nello stesso tempo a raggiungere l’intero col materno intrauterino sperimentato e la vita extrauterina che ci permette di separarci e sviluppare una certa differenziazione… ed è proprio all’interno di questa polarità, nello spazio compreso cioè, tra l’unione e la separazione, che di fatto si sviluppano tutte le possibili forme di resistenza… ma ciò premesso è bene chiedersi: è la soluzione migliore quella esercitata? Sono dell’idea che chi l’attiva pensa effettivamente che si tratti della soluzione migliore perché foriera di immediate garanzie… ma di fatto se ci si trova a condividere un luogo/spazio di lavoro, che a volte richiede una certa condivisione, l’ABBANDONO non si traduce quasi mai in una ricaduta positiva perché sposta il problema che magari si presenterà più avanti anche se con modalità e spigolature diverse… può considerarsi pertanto un rinviare la decisione di affrontare il problema che in quel determinato momento s’è preferito evitare nella speranza di non doverselo trovare davanti… in avanti.

Si può obiettare in mille modi e cercare di trovare logiche spiegazioni all’evitamento del problema e può darsi anche che queste spiegazioni possano segnare un confine duraturo per l’autodifesa del proprio territorio… ma siamo sicuri che questa modalità ci faccia fare un passo avanti? Evidentemente la retorica del domandarsi include risposte che lasciano qualche perplessità a cui bisognerebbe prestare un po’ di attenzione se vogliamo spingerci oltre le nostre DIFESE/RESISTENZE che sanno tanto di autarchico e che non è detto possano difenderci per chissà quanto tempo ancora. Quando ci capita con l’esterno non è difficile che ce ne facciamo una ragione. L’esterno, con una certa leggerezza, potremo confinarlo nell’estraneità pertanto lo porremo fuori di noi tra l’indifferenziata, convinti che prima o poi passerà qualcuno che ci libererà da quest’incombenza… un qualcuno che potrebbe essere il datore di lavoro, il Preside, l’Amministratore… si trova sempre chi fa le nostre veci, vivaddio. In tal caso il problema relegato nell’indifferenziata potrebbe apparirci risolto. Ma sarà vero? Non è detto che ciò che appare è… risolto. Anzi. Credo proprio che il cosiddetto ‘risolto’ lo si è collocato tra i tanti ‘irrisolti’ che quel nuovo nostro ABBANDONO vorrebbe farci vedere se non fosse che ci si ostina a non vedere. E dunque? Questa si che è una bella e dirimente domanda.

Ciò che oggi identifichiamo con l’ESTRANEO, al quale scarichiamo il nostro ABBANDONO convinti di esserci liberati da una modalità assai discutibile perché incarnata nei nostri meccanismi comportamentali, domani ce lo ritroveremo davanti col volto di un nostro familiare: partener, figlio/a, padre, madre, amico/a, socio/a… e che faremo? Essendo l’ABBANDONO un meccanismo di difesa che attiviamo in risposta ad uno stimolo esterno, quasi in maniera automatica (perché comportamentale), è ovvio che l’attiveremo anche in ‘famiglia’ provocando ripercussioni nelle relazioni casalinghe che potrebbero rivelarsi insanabili. Credo siano effetti di questi comportamenti di DIFESA/RESISTENZA talune separazioni di coppia. Quando l’ABBANDONO viene utilizzato come strumento per la difesa del proprio ‘territorio’ senza che si riesca a vagliare ed analizzare bene le cause che hanno determinato quell’azione, evidentemente si può andare incontro a conseguenze che non necessariamente sono state valutate. Anzi, a volte succede che le reazioni provocate vadano assai oltre le azioni poste in essere da quel meccanismo privo della giusta ponderazione. Aristotele nella sua Etica nicomachea ci raccomandava il ‘giusto mezzo’, che certamente non coincide con l’ABBANDONO che avrebbe definito ‘eccessivo’.

Una risposta sensata credo l’abbiano data agli inizi del secolo scorso i Gestaltisti (psicologi della forma) quando si riferivano alla consapevolezza che bisogna coltivare nei nostri comportamenti al fine di renderli respons-abili. Dobbiamo cioè cercare di rendere i nostri meccanismi meno statici e più dinamici se non vogliamo ripetere le solite modalità. Andare cioè oltre il déjà-vu meccanicistico per  divenire consapevoli che i nostri limiti/confini possono essere trasformati in soglie. Secondo Erving e Miriam Polster “Lo sviluppo delle tendenze vecchie non più utili, e il muoversi verso altre nuove, costituisce il processo centrale della…” relazione.

A volte – sembra strano – l’ABBANDONO può rispondere ad una esperienza pregressa che abbiamo messo nel dimenticatoio e all’occorrenza – se ci viene data l’occasione – la utilizziamo contro per far vivere ad altri ciò che possibilmente ci siamo vissuti noi e non abbiamo provato mai ad elaborare. l’ABBANDONO potrebbe richiamarci ad un lutto, ad una partenza, ad una separazione…, solitamente rappresenta una modalità sperimentata che tende a proteggerci quando ci sentiamo minacciati o quando le parole non riescono ad esprimere compiutamente l’acredine che un comportamento/contro ci ha provocato. Succede a questo punto che una ‘battuta(ccia)’, una discussione fuori dalle righe, un richiamo… ci porti indietro e facendoci rivivere quell’evento che pensavamo avere anestetizzato, messo in sordina o addirittura cancellato.

La realtà ‘parla’ per conto della verità. Se un fatto traumatico non è stato elaborato e tradotto/trasformato in qualcosa di ‘oltre’ il fatto in sé, c’è da aspettarsi che prima o poi faccia capolino e ci ricordi che su quello abbiamo un ‘debito’ da pagare magari facendoci accompagnare o mettendoci in ascolto di chi ha da offrirci nuovi punti di vista da prendere in considerazione per fare quel salto quantico utile alla consapevolezza del nostro esserci nelle relazioni a prescindere dai conflitti che possono aprirsi. L’ ABBANDONO, come DIFESA/RESISTENZA, ci chiede pertanto di comprenderlo per non subirlo. Ciò detto è – ovviamente – possibile ed anche opportuno abbandonare un gruppo di amici, un familiare… e se si è RESPONS-ABILI è sempre meglio.

Angelo Vita

(Psicopedagogista – docente di Filosofia e Storia)