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Il SUICIDIO è un raptus… o possi-AMO DOMinARLO?

biowoodheaterpegaso

 

Nel suicida la di-sperazione ha raggiunto e superato tutti i limiti che la mente possa sopportare e si affida alla morte per liberarsi dal mal di vivere? L’esito è storia di tutti i giorni. Questa azione, un abate francese del Settecento, un certo Desfontaines, l’ha chiamata ‘suicide’ e da quel momento è stato questo sostantivo a definire l’atto di procurarsi la morte. Questo termine sembra aver fatto un salto quantico rispetto a Shakespeare che nelle sue opere lo aveva descritto come ‘self- slaughter‘ (macello di sé) . I risvolti che il suicidio ha assunto col cristianesimo li conosciamo. Chi si dà la morte porta con sé un carico anche morale non indifferente rendendo di fatto questo gesto ancora più eclatante. Gli antichi filosofi greci consideravano il suicida un disertore dalla vita, e la legislazione ateniese ne esponeva pubblicamente la salma al vilipendio della cittadinanza mentre le popolazioni precristiane tendevano a dare una ‘dignità’ al gesto senza colpevolizzarlo ulteriormente, qui a noi non interessa fare un excursus storico del suicidio, ma comprenderne il senso. Gli stoici in atto credo siano più avanti di noi nel cercare un senso alle dinamiche vissute dal suicida che di certo non ha bisogno di ulteriori lanci di pietra per sentirsi peggio di come si sente quando entra nel vortice del darsi la morte che gli antichi greci chiamavano ‘autoktonia‘. I motivi che sottostanno al ‘gesto’ definitivo sono tanti e forse diversi ed anche unici, come unici sono quelli che non riescono a sottrarvisi. Ciò detto e dato per scontato che i motivi addotti siano più che validi, la domanda che ci si pone riguarda il confine/soglia che distingue il suicida da chi invece decide di vivere pur avendo in uno dei tanti periodi che la vita ci concede di viverci, motivazioni abbastanza forti per suicidarsi. Ed è questo confine/soglia che bisogna indagare per dare una mano a chi non ce la fa più per ricostruire un nuovo punto di vista che sia più vicino alla vita e che possa ridare un senso al non senso che lo abita.

COOPERATIVA SANTANNA

Il suicidio di certo non è un raptus mentre lo è a volte l’omicidio. Chi decide di suicidarsi, pertanto, è lucido/a, pianifica tutto dal come, al dove e quando… ed ‘ama’ lasciare traccia aldilà dell’atto in sé che più ‘spettacolare’ non potrebbe essere. E non va mai via in silenzio, il suo scopo è lasciare profonde cicatrici per dare senso ad un atto che apparentemente nasce da un non senso ovvero da una mente sconvolta e priva di ragione, ma che è frutto di un ‘progetto’ dettagliato. Non sono rari i casi di suicidi che lasciano frasi o lettere dirette a persone familiari… e di certo nulla hanno a che fare con gesti eroici come quello di Catone l’Uticense che offre la sua vita all’idea, come si legge al Canto I del Purgatorio di Dante – verso 71-, che ‘libertà va cercando ch’è si cara come sa chi per lei vita rifiuta’. I disagi esistenziali che sfociano nel suicidio sono quasi tutti annunciati da tempo.

Chi vi si avvicina (al suicidio) ha fatto già un percorso un percorso che coinvolge la famiglia, la scuola, la chiesa, la società civile nel suo insieme. Come a dire che più ‘rumoroso’ del suicidio poco altro c’è. E tutti gli ‘attori’ coinvolti in questa spettacolarizzazione del passaggio dalla vita alla morte, di sicuro avrebbero potuto ‘leggere’ un disagio che tentava di alienarsi dalle relazioni forti (familiari) e sociali (scuola, associazionismo, chiesa…), ma che non se ne è accorto nessuno o quelli che ne hanno avuto sentore non hanno dato la giusta rilevanza ai ‘segnali’ percepiti. Il suicidio è la sconfitta dell’intero tessuto sociale di cui fa parte il suicida: della famiglia che non è riuscita a chiedere aiuto o che si è accontentata di recitare il ruolo di ‘cenerentola’ estraniandosi rispetto ai vissuti del proprio familiare; della scuola che baricentrando tutto sui programmi dimentica spesso gli attori primi della scuola che sono gli alunni in carne ed ossa; dell’associazionismo che tende a perseguire i propri obiettivi per cercare un consenso maggiore alle iniziative poste in essere; della chiesa che preferisce al disagio i ragazzi regolamentati che seguono i dettami ecclesiastici senza mettere in gioco le proprie emozioni che agiscono altrove e sicuramente non dentro le mura della chiesa che a limite si occupa dell’assistenza e non dell’ascolto attivo… questo è un mio pensiero tratto da un’esperienza oramai cinquantennale, ma è pur sempre un mio pensiero che in alcune realtà potrebbe essere confutato. Mi sovviene a questo punto come contrappasso, la canzone Preghiera in gennaio’ di De Andrè scritta a seguito del suicidio di Luigi Tengo durante il festival di Sanremo del 1967 perché piena di misericordia che la stessa chiesa non ha concesso ai tanti che hanno deciso questa tragica e drammatica conclusione della propria esistenza. Di certo non l’hanno fatto per dispetto a Dio o alla Chiesa, a Platone o ai tomisti, e non credo proprio che l’anatema contro il suicidio ne abbia determinato la contrazione. De Andrè – ispiratosi anche ad una poesia di Francis Jammes, poeta francese dei primi del novecento, ‘Prière pour aller au paradis avec les ânes’ (Preghiera per andare in paradiso con gli asini’) – mostra tutta la sua compassione per chi non ce l’ha fatta a superare il peso delle proprie ombre, direbbe Jung, non viste da chi, girato dall’altra parte, evita i tramonti che fanno pur parte della vita. A volte la misericordia  e la compassione risiedono in ‘cuori’ desertificati dalle ‘verità’ dogmatiche di una certa chiesa.

Il discrimine, di cui si ragionava prima, tra chi decide e chi no di suicidarsi, spesso e volentieri è dato dal contesto. In presenza di motivazioni suicidanti similari se non peggiori il contesto fa, dunque, la differenza in famiglia, a scuola, nell’associazionismo, nella chiesa… essere e rimanere in ascolto può salvare delle vite dalla necrosi, perché è evidente che chi decide il suicidio e lo pratica o lo evita è già morto dentro, pertanto va rivitalizzato con dosi massicce di accoglienza da parte di chi sente di stargli vicino. Chi si mette in ascolto ed interviene, nel favorire un cambio di prospettiva in chi è morto dentro, perché ciò che prima aveva senso non assume più senso, funge da anticorpo… e chissà quante volte avviene sotto i nostri occhi e non ce ne accorgiamo. Spesso basta poco, uno sguardo, una carezza, una considerazione… un PERCORSO per affrontare insieme il periodo di CRISI di passaggio da una sponda non più sicura ad una nuova in cui tutto si rimetta in gioco attraverso magari una ‘rete’ di uomini e donne di buona volontà, una famiglia allargata, una scuola capace di ‘piegare’ i programmi alla qualità della vita dei propri ragazzi… questo e non solo questo, ma anche questo, può permettere che il miracolo della vita si compia.

Uno dei periodi più sensibili al suicidio è sicuramente l’adolescenza in senso lato… interessa cioè tutti quei passaggi/crisi che la vita s’incarica di frapporre al nostro cammino quasi a volerci spingere a trovare una soluzione laddove ci vengono posti dei problemi. Adolescenza, che dal latino adolescĕre significa “crescere” ha una sua genesi etimologica, ancora più lontana, che aiuta parecchio a comprendere il senso del gesto estremo del suicidio. Il termine deriva anche dal greco ‘ad-òlos’ che significa ‘verso l’intero’… e di fatto il periodo di vita che è contrassegnato da questo termine interessa una fascia di età che vede i ragazzi in cammino verso la propria adultità.

L’immagine che più ci aiuta a comprenderne il senso è quella del fiume… gli adolescenti sono coloro che si immettono nel fiume con la speranza di attraversarne indenni le correnti ed arrivare ‘interi’ all’altra sponda.

In questo fiume tempestoso i ragazzi traghettano le loro ‘parzialità’, le diverse ‘parti’ non ancora adulte… e lo fanno come possono, come sanno, come l’hanno appreso durante la loro infanzia.

Le loro ‘parti’ non avendo ancora raggiunto l’intero a cui aspirano non sono capaci di responsabilità… che presuppone – ahinoi – una certa autoreferenzialità conseguenza di quell’intero in formazione ma non in atto… e se non c’è responsabilità, perché non c’è un intero, gli stessi comportamenti sono figli della loro ‘parzialità’… tradotto i ragazzi che attraversano il fiume dell’adolescenza se non hanno un punto fermo, una barca, un adulto/intero a cui affidare le loro difficoltà e chiederne l’accompagnamento possono perdersi e scambiare le ‘parti’ che si vivono in maniera intensa ed a volte esasperata per il ‘tutto’ a cui aspirano e che ancora non sono…

Il suicidio, pertanto, s’innesta e trova il suo humus nelle ‘parti’ confuse per ‘intero’… mentre le ‘parti’, che I ragazzi sono, attraversano il fiume tempestoso dell’adolescenza si scontrano con le loro stesse debolezze può succedere che una ‘parte’ (di un/a ragazzo/a) utilizza l’altra ‘parte’ (di un/a ragazzo/a) come salvagente per darsi valore senza chiedersi quali conseguenze un determinato comportamento può avere… l’irresponsabilità è una caratteristica della ‘parzialità’ vissuta in adolescenza.
Solo quando si ha chiaro il bisogno di avere un’àncora, un adulto/intero la ‘parzialità’ può essere vissuta come un ostacolo da cui ri-partire… diversamente si può optare per la soluzione estrema che preferisce punirsi anziché deludere quell’adulto/intero a cui si è affezionati e che si crede, erroneamente, di aver tradito.

Il suicidio è una possibile declinazione di un’adolescenza embriogenetica che non è transitata nella sponda fetogenetica della responsabilità. Evidentemente gli adulti se ‘interi’ in ogni loro ruolo/funzione familiare, scolastica, religiosa, associativa… son chiamati a vigilare il fiume dell’adolescenza e cogliere i tanti(ssimi) segnali che a getto continuo i ragazzi lanciano utilizzando diversi codici criptati che non dovrebbero sfuggire all’occhio attento di quanti condividono gran parte delle giornate a casa, a scuola, nell’associazionismo, in chiesa, al bar… se ciò non avviene vuol dire che bisogna interrogarsi sulle relazioni che siamo riusciti a costruire nel bene e nel male coi nostri alunni/figli/adolescenti…
In tal senso assume un forte valore il sapere LEGGERE al di là del l’apparenza.

L’etimologia del verbo LEGGERE è da ricondursi al latino ‘legere’, che trova affinità nel greco λέγω (lego), con il significato di ‘raccogliere’ o dire. Leggere significa fondamentalmente ‘raccogliere’, ma il termine ci suggerisce un significato che va oltre la semplice ripetizione meccanica di suoni; infatti, la radice ‘leg’ è alla base del termine ‘lògos’, che racchiude in sé svariati significati (parola, discorso, causa, ragione…), per cui la lettura può essere considerata come un’azione che coinvolge la totalità della persona che “raccoglie” e in particolar modo la sua capacità di cogliere il significato profondo di ogni testo….

Chi ‘legge’ specie se tra le ‘righe’ dev’essere un ‘adulto/intero’, maturo, responsabile che ha già attraversato – come gli gnu’ – il fiume tempestoso dell’adolescenza ed ha registrato nella sua ‘memoria metastorica’ vissuti che l’hanno segnato/forgiato e reso ‘adulto’ ovvero ‘intero’…

Quando ciò non accade potrà significare che il rapporto/relazione adulto/adolescente è di fatto tra adolescente (anche se adulto di età) ed adolescente, pertanto, è tra una ‘parzialità ed un’altra ‘parzialità’ mascherata da genitore/insegnante/prete o, o, o… altri adulti mancati.

Quando l’adolescente/suicida nel suo ultimo messaggio scrive che tutti quelli che l’hanno circondata, nel corso della sua vita, sono stati esemplari, è evidente che le relazioni/rapporti familiari, scolastici, religiosi, sociali… con gli adulti si sono mantenuti su piani superficiali, simbolici, razionali e per nulla bio/organici, profondi…

Voglio dire che condividere le gioie, le feste, le discese con gli adulti di riferimento risparmiando loro le delusioni, le piaghe e le salite… magari per proteggerli, lascia i rapporti su piani superficiali… e se questo lo si può capire/comprendere perché frutto di un amore filiale o di rispetto… posto in essere dell’adolescente, lo stesso non si può per la schiera di adulti che non hanno saputo tradurre i ‘confini’, dei propri figli/alunni/fedeli/sportivi… in ‘soglie’ che permettessero di vedere ‘oltre’… di presentarsi come àncora/punto fermo da cui ri-partire…

Se l’adolescente trova negli adulti dei veri e propri accompagnatori che non hanno paura di sporcarsi le mani e di iniziare d’accapo, dal punto più basso, senza che questo possa comportare pregiudizio sui rapporti/relazioni pregressi… anzi li può rafforzare/rivedere a partire dalle dinamiche che la vita ci ‘sbatte’ in faccia, specie se questa ha troppe maschere da cui liberarsi per rinnovarsi senza alcun lifting esterno, sarà capace/disposto di con/fidare il dramma che vive e che non riesce a sciogliere da solo/a…

La vita per vivere ha bisogno della vita e non della morte indotta… la morte è la resa di una vita dalle radici superficiali… è un ri-partire insieme a chi ti ha partorito/a… a chi ti ha sostenuto/a quando eri fragile, a chi ti ha nutrito…

Quando un/a adolescente sente di poter contare sui suoi affetti/adulti (specie sulla madre)… ha più possibilità di contrastare e vincere le avversità ed uscirne rafforzato/a…

 

Angelo Vita

(Psicopedagogista – docente di Filosofia e Storia)